L’approvazione della norma "salva-Milano", per la quale il consenso trasversale registrato nel passaggio alla Camera non è detto che trovi conferma al Senato, è invece attesa con ansia negli studi di diritto amministrativo di tutta Italia. Il perché è presto detto. Con la nuova disposizione nel testo approvato da un ramo del Parlamento infatti, che si auto-qualifica come di interpretazione autentica di disposizioni previgenti, viene smontato il presupposto delle inchieste avviate dalla magistratura milanese (già sfociate in sequestri confermati dai giudici delle indagini preliminari) sulla prassi di autorizzare con pratiche edilizie semplificate, senza piani urbanistici attuativi e senza il pagamento di oneri, la sostituzione di fabbricati preesistenti, anche di ridotte dimensioni, con grattacieli di molti piani e con conseguenti incrementi volumetrici significativi. Un’urbanistica in salsa ambrosiana, per la quale un grattacielo e una villetta di due piani pari sono, che non ha mai trovato analogie nelle altre città italiane, grandi e piccole, dove i Comuni sono sempre stati più rigorosi nel qualificare gli interventi secondo la loro effettiva consistenza e incassando, senza sconti, tutti i conseguenti oneri concessori.
Ovviamente il Parlamento è sovrano e non vi è alcun impedimento a una sanatoria, come già tante volte è avvenuto in passato. In questo caso, però, la questione dolente è proprio l’impatto finanziario della soluzione che si vorrebbe perseguire, sotto la pressione possente e unanime della capitale economica d’Italia, quella appunto dell’interpretazione autentica che fa apparire come errate, anche in base alla normativa pregressa, le tesi fatte proprie dalla magistratura e applicate negli altri territori. Dicono gli amministrativisti, che stanno affilando le armi a tutela di coloro che hanno realizzato interventi del tutto simili a quelli di Milano, sopportando costi ben superiori a favore dei Comuni, che l’indicazione che verrà dalla norma interpretativa e proprio in forza di questa qualificazione, sarà che quelle somme non erano dovute. Di conseguenza dovranno necessariamente essere integralmente restituite con gli interessi, con il limite temporale dei dieci anni della prescrizione ordinaria. Una vera e propria voragine finanziaria, a danno delle finanze pubbliche per fronteggiare la quale non sarà sufficiente la solita clausola finale della c.d. invarianza finanziaria, la quale in questa occasione non sembra poter funzionare.
Vedremo se, grazie alla pausa di riflessione in corso all’interno di varie forze politiche, verrà avanzata una soluzione alternativa costruita attorno a due punti fermi. Che, per esempio, grazie a una forma di fiscalizzazione gli extra profitti dei promotori degli interventi ritornino nelle casse del Comune e che gli acquirenti in buona fede degli immobili non debbano subire conseguenze negativa per l’azione amministrativa quanto meno incauta della stessa amministrazione.