L’obiettivo è chiaro e il Governo lo ha indicato lo scorso anno varando il Pniec (piano nazionale integrato per l’energia ed il clima): raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050 con una quota di produzione da fonte nucleare che copra tra l’11% e il 22% della richiesta di energia elettrica, cioè tra gli 8 e i 16 GW di capacità nucleare installata. Se i nostri eroi riusciranno nell’impresa dipende ovviamente da molti fattori e da molti attori. Va subito detto che rispetto all’esperienza nel settore del secolo scorso, avviata e poi abbandonata all’esito dei referendum popolari del novembre del 1987, è innanzitutto cambiato il ruolo dello Stato.
Con pochi e brevi articoli della legge n. 393 del 1975 era l’Enel, azienda pubblica, ad essere direttamente autorizzata a localizzare e costruire le centrali. Oggi nel disegno di legge delega al Governo in materia di “nucleare sostenibile” , che contiene una serie nutrita di principi e criteri direttivi per futuri decreti legislativi (se ne prevede una doppia serie da varare in un quadriennio), la dichiarata scelta di fondo è quella di lasciare al mercato e agli operatori la valutazione delle opzioni tecnologiche più efficaci e competitive. Come si legge nella relazione di accompagnamento, i promotori dei progetti nucleari saranno tenuti a fornire adeguate garanzie finanziarie e giuridiche per coprire i costi di costruzione, gestione e smantellamento degli impianti e per i rischi, anche a loro non direttamente imputabili, derivanti dall’attività nucleare.
Se si considera che proprio nei giorni scorsi (Sole 24 Ore del 12 febbraio) l’ad di Sogin, incaricata di smantellare le quattro centrali di Trino, Caorso, Latina e Garigliano e di realizzare il deposito nazionale per i rifiuti radioattivi, ha annunciato di essere al 45% del percorso e di prevedere, per chiudere gli obiettivi entro il 2052, una spesa di 11,4 miliardi di euro, il trasferimento ai privati di questi oneri per gli impianti di nuova generazione può pesare non poco sulla fattibilità dell’intero piano. Per stemperare l’impatto di quella dichiarazione si afferma che “potranno essere definite e disciplinare eventuali modalità di sostegno alla produzione di energia da fonte nucleare, che affianchino la fondamentale iniziativa economica privata”. Il cantiere del nuovo nucleare nazionale è quindi, per ora, un luogo di produzione normativa, che parte dall’affermazione di una completa rottura con le esperienze nucleari precedenti, muovendo dal dato di fatto che il “nucleare sostenibile” di oggi non è tecnologicamente comparabile con quello precedente.
Questo rende giuridicamente possibile, alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale superare l’esito delle precedenti abrogazioni referendarie. La declinazione del concetto di sostenibilità (ambientale, sociale ed economica) è affidato ai principi e ai criteri direttivi contenuti nell’art. 3 del disegno di legge delega (ben 27). Tra questi rientra l’impegno a individuare le tipologie di impianti abilitabili sulla base dei criteri di massima sostenibilità e sicurezza e che utilizzino le migliori tecnologie nucleari, incluse le tecnologie modulari o avanzate. Quanto ai profili ambientali, la perentoria affermazione che la tecnologia nucleare “tutela fortemente l’ambiente” è suffragata dal richiamo alle fonti comunitarie (Regolamento Tassonomia dell’UE del 2020 e considerando 6 del Regolamento 2022/2014) ed affidata alla sottoposizione di ogni progetto di impianto all’ordinaria procedura di VIA del codice dell’ambiente, nonché all’inserimento, tra i principi, del rispetto del paesaggio e del patrimonio storico-artistico della Nazione «come tutelato ai sensi dell’art. 9 della Costituzione». Un richiamo, quest’ultimo, che suona un po’ datato come se l’estensore non fosse aggiornato alla novella della legge costituzionale n.1 del 2022 che ha fatto propria, nell’ambito sia dell’art. 9 sia dell’art. 41, una visione più ampia di ambiente.
Ma la sfida più difficile appare quella del consenso popolare. L’approccio istituzionale sembra essere molto top down, con un ruolo del tutto marginale delle Regioni e degli enti locali e procedimenti autorizzatori focalizzati sulla rapidità nel raggiungere l’esito predeterminato piuttosto che sull’inclusione degli interlocutori sociali e sulla capacità di migliorare la qualità del progetto nel farsi dell’azione amministrativa. Liquidare questo profilo affidandolo unicamente a campagne informative appare rischioso, perché il consenso richiede che si crei un rapporto di fiducia e la fiducia si conquista solo se il dialogo tra le istituzioni e tra queste e la società civile è paritario. Si chiama amministrazione pubblica condivisa.